Ospiti

Un racconto di Giovanna Ripolo

La lettera

Che poi a volte il destino si diverte a scompaginare le carte e rimescolare gli eventi. Valigie, bagagli, bastimenti e sudore sullo sfondo di uomini e cose. E poi il tempo, quello lungo, quello che non lascia scampo, si srotola tra le pieghe delle coincidenze. Come in quel pomeriggio di ottobre quando Elena in mezzo a tutti quegli scatoloni si trovò a rovistare cercando qualcosa di originale da indossare per la festa di Cinzia, quella della 5° B che l’aveva invitata al party più cool e ambito di tutto il suo giro. La “piccoletta”, così la chiamavano i ragazzi più grandi solo perché frequentava ancora il terzo, sarebbe stata l’unica della sua classe a partecipare al “party dell’anno”.

Unico e insormontabile problema la clausola in fondo all’invito “Si prega di indossare abbigliamento anni `80“.

“Ok. Ho capito” rispose Elena continuando a smangiucchiarsi unghie e pellicine.”Anni Ottanta, non lo so, ora cerco, chiedo a mamma, va bene ti faccio sapere”. Chiuse la chiamata e continuando a torturarsi le unghie cominciò a controllare le notifiche sul telefono dirigendosi verso la camera da letto dei suoi genitori.

“Mamma dove sei?”

“Sono qui. Che vuoi?” rispose la madre dalla stanza accanto, anche lei piegata e raccolta sullo schermo del cellulare.

“Mi serve qualcosa anni Ottanta vieni?” continuò iniziando aspostare scatoloni e indumenti.

“Guarda che nell’armadio ci deve essere qualcosa vicino al cambio invernale”.

“Dove? Non vedo niente. Un sacco di scatole, mà!”

“Una scatola azzurra, cerca una scatola azzurra!”

“Mà, che palle! Non puoi venire? Io non vedo niente!”

“E’ proprio lì accanto alle scatole con le calze invernali, vicino alle sciarpe e cappelli di lana”.

“Mà, non la trovo! Ma non puoi venire tu a cercare?”

“Uff, ma è possibile che non riesci a fare mai niente senza il mio aiuto!” continuò alzandosi e raggiungendo la figlia che aveva appena aperto una scatola.

“E queste? Cosa sono queste?”

“Lasciale, non toccarle!”, c’era dell’ansia nella sua voce.

“Ma perché? Di chi sono?” continuò Elena, prendendo in mano un grosso mazzo di   lettere tutte ingiallite e con lo stesso destinatario:

Angela Rinaldi, via Monteleone, 70 Ardore, Reggio Calabria – Italia.

Mentre le sfiorava si espandeva un odore dolciastro, come di mughetto, ma la vera particolarità era il mittente:

Domenico Polari 3489 Drummond, Montréal, QC H3A 1A9, Canada.

Aprì la prima busta e cominciò a leggere ad alta voce:

Montreal Marzo, 5, 1931

Mia carissima Angela, ti scrivo la presente lettera facendoti sapere della mia buona salute. Dopo un lungo silenzio da parte tua vengo con queste poche righe per chiederti notizie. Ho pensato che le altre mie lettere si sono perse siccome non ho ricevuto una risposta. La mia patria natale oramai non può accogliermi e tu sai   perché. Mia adorata moglie, ti prego di raggiungermi, ho trovato da lavorare qui dal compare Antonio al cantiere e sto cercando qualcosa per dormire e stare qui tutti insieme, con i nostri figli Antonio e la piccola Rosa, che ancora non ho mai potuto     tenere in braccio. Sento tanto la vostra mancanza e vi abbraccio tutti.

“Smettila! Dammi subito!”

“Dai mà, sono vecchissime -continuò Elena, sfogliando e aprendo una lettera dopo l’altra – e poi vengono dal Canada. Che figo!”

“Dai qua che le rovini. Sono le lettere dei genitori di nonna Rosa”.

“Nonna Rosa? Cosa stai dicendo? Se mi hai sempre detto che la nonna è stata cresciuta da sua mamma perchè il papà è morto giovanissimo!”

“Le cose non sono andate proprio così -continuò, strappandole le lettere dalle mani e andandosi ad accovacciare sul bordo del letto- in realtà il papà di nonna Rosa è morto quando aveva quasi settant’anni, -prese fiato- è morto in Canada” disse guardando negli occhi la figlia. Forse era arrivato il momento di fare pace con se stessa e con il suo passato.

Si sollevò dall’angolo del letto dove era andata ad accovacciarsi e decise di raccontarle di quando la sua bisnonna con il cuore a pezzi aveva provato a mandare avanti casa e famiglia in una piccolissima provincia della Calabria dove gli   echi del fascismo si propagavano e attecchivano sempre più. Un piccolo paese dove “Mimmo u’ russu”, soprannome che perseguitava il bisnonno Domenico Polari da quando aveva discusso con il padrone per delle giornate non pagate appellandosi ai diritti dei lavoratori, non aveva vita facile. Le raccontò anche di quando si era addirittura rifiutato di far vestire il piccolo Antonio da balilla e della decisione di partire e andare in Canada per allontanarsi da situazioni diventate scomode e trovare un lavoro. Tutto questo la promessa di rientrare per portare con sè il resto della famiglia prima   possibile, visto che la moglie era incinta.

“Nonna Rosa quindi non ha mai conosciuto suo papà?” la interruppe Elena.

“No, non è stato facile”. I ricordi nella sua mente si affollavano e le immagini sbiadite si facevano più nitide.

“Nonna Rosa ha sofferto tanto, -riprese- e alcune decisioni di sua madre l’hanno fatta crescere prima del previsto”.

La madre continuò a raccontare alla figlia di quando ad un certo punto le lettere non avevano più ricevuto risposta. E anche di quando quel cugino, al rientro dal Canada, aveva detto a tutti che “Mimmo u’ russu” si era sistemato proprio bene, lasciando   intuire che c’era un’altra donna nella sua vita. E infine della decisione presa con la     famiglia di far sapere in giro che Mimmo Polari era morto improvvisamente, per non provocare scandalo.

Elena spostò lo sguardo da sua madre alla lettera che aveva ancora in mano. Il campanello interruppe le azioni e i pensieri di mamma e figlia.

Era un pomeriggio afoso, uno di quelli in cui anche a farti vento con un pezzo di carta ti investiva l’aria calda. Il foglio che Rosa aveva tra le mani era spesso, di un cartoncino ingiallito e vergato con una grafia sottile ed irregolare.

“E questa?”

“Che ne so!”

“E tu? Neanche tu lo sai?”, Rosa continuava a sventolare la lettera davanti agli zii Mario e Gino, i fratelli di sua madre che da quando era nata avevano fatto le veci di un padre che non aveva mai conosciuto.

“Una lettera, sembra” rispose zio Mario fissando attentamente lo spigolo del tavolo.

“Si, una lettera” continuò zio Gino soffermandosi sul medesimo spigolo.

“Voi mi dovete spiegare!”

“Ma che vuoi spiegare. E’ una cosa vecchia”.

Mia adorata moglie -cominciò a leggere Rosa- io ti prego di raggiungermi, ho trovato da lavorare qui dal compare Antonio al cantiere e sto cercando qualcosa per   dormire e stare qui tutti insieme con i nostri figli Antonio e la piccola Rosa, che ancora non ho mai potuto tenere in braccio“.

Rosa si avvicinò ai suoi zii, il respiro le mancava e aveva una confusione terribile in testa ma aveva ancora la forza per ragionare e tentare di capire.

“Vedi Rosa, non era cosa possibile. Tua madre doveva stare qui e non andare in quel paese lontano” iniziò Mario.

“Appunto -lo incalzò Gino- non era possibile. Noi, la sua famiglia e tutte le sue cose   erano qui. I suoi figli, i nostri nipoti, solamente qui potevano crescere, dove c’eravamo noi a proteggerli ed aiutarli”.

“Infatti! -Mario si alzò di scatto- Mimmo aveva già sbagliato e stava portando la famiglia alla rovina!”

“Forse adesso per te è difficile capire ma era l’unica cosa da fare”.

A quel punto a Rosa tutto apparve chiaro e nitido come quando si esce improvvisamente da una lunga galleria buia. La lettera che lei aveva tra le mani in quel momento, sua madre non l’aveva mai letta.

“Voi? Come avete potuto?” le lacrime cominciarono a rigare il volto di Rosa.

“Mamma doveva sapere!” cominciò ad urlare. “Perché l’avete fatta soffrire così’?

Alle urla si aggiunsero i pugni che con forza Rosa sbatteva contro gli zii che tentavano di fermarla. “Non si fa cosi! Chi vi ha detto di decidere cosa era giusto per mamma, per me, per Antonio!”

La foto in bianco e nero appesa nel soggiorno, quella in cui nonna Rosa era seduta con in braccio sua madre e zio Antonio in piedi accanto a lei, era parte dell’arredamento. Uno di quegli oggetti che non vedi più perché stanno lì da sempre.

Elena si diresse velocemente verso la parete e si accorse che in fondo non l’aveva mai guardata attentamente. La donna in foto era bellissima, i suoi lineamenti irregolari e lo sguardo austero facevano tutt’uno con i capelli ordinatamente raccolti in una crocchia come si usava un tempo. Tra le mani, non ci aveva mai fatto caso prima di ora, aveva qualcosa, forse un pezzo di carta, forse una lettera.

L’immagine era troppo sbiadita e usurata dal tempo. Elena non aveva capito fino in fondo cosa era successo e, probabilmente, la storia raccontata da sua madre era solo una parte della verità che aveva a che fare con lettere nascoste, fratelli gelosi e una società arcaica e senza cuore che aveva arbitrariamente modificato la vita di un’intera   stirpe familiare. Che poi è questo quello che succede: a volte il destino si diverte a scompaginare le carte e rimescolare gli eventi.

 

da “Racconti calabro-lucani” – Edizione 2019

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