Ospiti

Otto racconti di Tiziana Albanese

1) Il gabbiano che non sapeva volare (In memoria di Vincenzo Muccioli)
Pallida, lo sguardo spento, il viso scarno, rannicchiata in un angolo del bagno della scuola: questa era Giulia, e la mia storia inizia con lei. Appena la vidi capii che era disperata quanto me. Accennò un sorriso, sollevò lo sguardo ed io vi ritrovai lo stesso vuoto, la stessa solitudine, la stessa rabbia che ogni mattina, guardandomi allo specchio, scorgevo nei miei occhi. Subito nacque tra noi una spontanea complicità, che si trasformò, ben presto, in una grande amicizia. Entrambe incomprese, entrambe sole, entrambe vittime di una società che più volte ci aveva deluse e tradite, trascinavamo la nostra esistenza nel disperato bisogno d’amore. Giulia colmava questo vuoto con la droga. Aveva iniziato fumando spinelli e, via via, continuò assumendo droghe sempre più pesanti, nel tentativo di evadere e dimenticare i suoi problemi. I suoi genitori, così come i miei, erano ottusamente fermi al passato, e con i loro rigidi sistemi l’avevano oppressa, causando la sua insicurezza e sfiducia negli altri. Da quando si drogava aveva perso ogni interesse e a scuola, nella sua classe, dove un tempo era considerata e stimata per il suo impegno, ora al contrario veniva trattata come una reietta da compagni e professori. Ma Giulia non aveva speranze, e anch’io pensavo di non averne. Mio padre e mia madre continuavano ad opprimermi con i loro metodi educativi tutt’altro che positivi, non capivano che la loro mentalità retrograda e i loro divieti troppo severi mi avevano isolata e, ormai, ovunque cercassi d’integrarmi avevo l’impressione di non essere ben accetta e finii quindi per rassegnarmi.
A peggiorare la situazione c’era Sandro. L’avevo conosciuto circa un anno prima, ed era stato il classico colpo di fulmine: ci mettemmo insieme, e per me fu la prima esperienza.
Ero felice, pensavo di aver trovato qualcuno che avesse voglia di ascoltarmi e che avrebbe potuto consigliarmi. Ma fu una delusione. Sebbene Sandro fosse più grande di me, si rivelò ben presto molto diverso dal ragazzo forte e maturo cui volevo appoggiarmi e col quale pensavo di riuscire a dimenticare il mondo che mi circondava. Sandro, invece, era un ragazzo immaturo, superficiale e solo apparentemente forte, ma in realtà debole e confuso, anche più di me. Dopo poco tempo ci lasciammo, e per me quel rifiuto fu l’inizio della fine, perché io l’amavo veramente ed avevo un disperato bisogno del suo affetto, che avrebbe dovuto colmare il vuoto creato dai miei genitori e dai miei compagni.
Quando Giulia e la droga entrarono nella mia storia, la vita mi aveva già sbattuto troppe volte la porta in faccia, e con una tale violenza da farmi desistere dal fare qualsiasi nuovo tentativo. Ero stanca, l’unica cosa che desideravo fare era lasciarmi andare, dimenticare tutto e tutti. E Giulia mi offrì la soluzione. Non seguii un processo graduale… Cominciai subito ad assumere sostanze pesanti, che ogni volta sembravano darmi vita ma che, in realtà, mi spegnevano piano piano, e quasi senza accorgermene divenni anch’io vittima di me stessa, della mia mente, delle mie azioni… I miei non si accorsero di nulla, perché non avrebbero mai potuto credere che la loro “bambina” facesse cose del genere, ed io agivo così anche per questo, perché drogandomi pensavo di punire loro per il dolore che mi avevano procurato. E invece stavo punendo solo me stessa. A tutti i problemi che già avevo ne stavo aggiungendo un altro, che alla fine avrebbe reso la mia vita un inferno e me schiava di una siringa e un po’ di eroina. Tante volte, prima di “farci”, io e Giulia ci guardavamo negli occhi, spaventate, cercando l’una nell’altra la forza di dire no, di fermarci prima che fosse tardi. Sapevamo di stare andando alla deriva, che ogni dose era un passo avanti verso l’orlo di un precipizio, e volevamo resistere, tentavamo in ogni modo di farlo. Ma alla fine vinceva la debolezza…
Io e Giulia, compagne di un viaggio la cui ultima fermata è la morte. Una volta, Giulia mi raccontò di quando, da piccola, passava ore sulla spiaggia ad osservare i gabbiani: spesso aveva sognato di diventare una di loro, per essere completamente libera. Non riusciva a spiegarsi come quel grande desiderio di libertà avesse potuto trasformarsi, durante l’adolescenza, in quella mera disperazione autodistruttiva. Io non sapevo cosa rispondere. E come avrei potuto? Anche i miei sogni e i miei ideali erano spariti senza lasciare alcuna traccia da quando mi drogavo, ed io trascorrevo giornate intere chiedendomi in cosa avevo sbagliato e cercando inutilmente di resistere al bisogno di bucarmi. Ben presto i miei genitori lo capirono ed io, in cuor mio, ne fui contenta, perché pensavo ancora che avrebbero potuto ravvedersi ed aiutarmi ad uscire dal vortice infernale nel quale mi trovavo. Mi sbagliavo. Non cercarono di capirmi: mi giudicarono semplicemente. Avevo infangato il buon nome della famiglia, avevo procurato loro un gran dolore che certo non meritavano, visto che credevano di avermi dato il meglio.
Tutto questo andava oltre ciò che potevo sopportare e decisi, insieme a Giulia, di scappare, perché eravamo entrambe desiderose di allontanarci il più possibile dai nostri problemi… Ma fuggire non ha mai risolto nulla.
Ci ritrovammo su uno di quei treni di cui non si sa mai la destinazione, convinte che nessuno al mondo avrebbe potuto mai comprenderci, pronte ad affrontare, insieme alla droga, un viaggio senza meta. Ma Giulia, su queI treno, trovò la morte.
Non appena salimmo, “fatte” come non mai, ci lasciammo cadere sul lurido pavimento di quell’ultimo vagone, che era completamente vuoto, solo. Come noi, del resto. Ridevamo e piangevamo senza alcun motivo, parlavamo pronunciando frasi senza senso, senza alcuna logica, completamente annebbiate. Giulia stava male, tanto male, ed era stanca, molto più di me, di condurre quell’esistenza. Ricordo il profondo buio di un tunnel e noi, a terra, che fissavamo con sguardo assente la siringa: ancora una volta vinte, ancora una volta abbandonate a noi stesse. Io continuavo a parlare, a cantare stonata incitando la mia compagna di vita e di morte a lasciarsi andare all’ebbrezza, alla falsa felicità che si prova in quei momenti. Lei, al contrario, si lasciò andare, per l’ultima volta, alla droga.
Morì di overdose accanto a me. Pochi istanti prima di spirare mi guardò con una strana espressione e, sorridendo, disse: “Non ti preoccupare… Adesso sono libera… Ecco i gabbiani…”. Non riuscì a finire. Morì fra le mie braccia, e quando chiuse gli occhi assunse un’espressione beata, il suo viso finalmente sereno era in contrasto con il suo corpo martoriato, ridotto a una larva dopo una vita di droga e disperazione. In quel momento capii che avevo veramente toccato il fondo. Mi guardai in giro attonita, osservando l’ambiente squallido che mi circondava, e poi Giulia, ormai morta… Avrei fatto anch’io quella fine? Avrei dovuto aspettare anch’io la morte per essere libera? Solo allora mi resi conto di avere tutta una vita davanti a me. La lacrime vennero giù da sole. Strinsi forte a me il corpo ormai esanime di Giulia e le promisi che la sua morte non sarebbe stata inutile, perché io avrei trovato la forza di smettere con la droga.
Di quello che accadde poi ho un vago ricordo: confusione, sguardi severi e ammonitori, la polizia, la sirena dell’autoambulanza, gli occhi `di mio padre e di mia madre spenti, delusi. Ricordo la tomba di Giulia, colpita dal sole che sembrava volesse darle vita.., ma Giulia ormai non c’era più. Decisi di entrare in una comunità. Il mio primo ricordo lucido risale a qualche settimana dopo quella fatidica notte, quando un mattino, all’alba, mi sentii chiamare da fuori: una voce calda, amica mi incitava ad alzarmi dal letto. Io mi avvicinai piano ma senza timore alla finestra. La aprii cercando con lo sguardo quella voce, cercando Giulia. La vidi… La vidi nel sole, lo stesso che baciava la sua tomba,che sorgeva,e nel mare che lo rifletteva. La sentii nell’aria tiepida, la stessa di un caldo mattino d’estate, e capii che non mi aveva abbandonato ma era sempre lì, accanto a me, pronta ad aiutarmi e a sorreggermi, ad aiutarmi ad amare la vita. Nuovamente insieme, dunque, io e Giulia, decise a combattere contro la morte.
E così è stato.
In quella comunità ho trovato la forza per ricominciare ed ho riacquistato fiducia e rispetto nei miei confronti. Oggi io stessa ne dirigo una, e con i miei ragazzi continuo quella battaglia intrapresa nel ricordo di Giulia. Sono giovani forti, ma resi deboli da questa società malata e corrotta. E negli occhi di ciascuno di loro trovo la stessa disperazione che avevo io. Non chiedetemi da dove arriva quella disperazione: sappiate però che ne siamo tutti responsabili. Ogni ragazzo che si droga, ogni ragazzo che vende la sua vita per un’amara illusione è una sconfitta per ciascuno di noi che, vivendo con indifferenza e falsa tranquillità, lontani dagli, altri, dimentichiamo troppo spesso che gli altri siamo noi.

2) Il nome dell’amicizia
Gli anziani: una fonte inesauribile di saggezza e di esperienze.
Ad essi possiamo ascrivere una categoria particolare: i nonni,gli anziani più saggi, esperti e perché no, più simpatici. Essi amano i loro nipoti più dei loro figli, forse perché, ad una certa età, si ritorna bambini. E per amore dei nipoti sopportano tutto: i capricci, gli sgarbi. Danno tutto ciò che hanno e, in cambio, chiedono solo amore.
Mio nonno è colui che,forse, rappresenta meglio di tutti il genere di anziani descritti. In famiglia è l’unico che mi appoggia sempre, che mi dà ragione anche Quando ho torto, che mi vizia, che mi giustifica in ogni occasione. Ma, purtroppo, molto spesso, io commetto l’errore di molti miei coetanei e, per fretta o per noncuranza,non ricambio le sue attenzioni. Altre volte, invece, anche per quietare il rimorso che mi causa Questo comportamento, mi siedo accanto a lui e gli chiedo di raccontarmi qualche episodio della sua gioventù. Amo ascoltare i suoi racconti, perché mi parla con parole semplici, ma descrive le scene   e i fatti in modo così realistico che mi è facile poterli immaginare.
Quando sono malata, poi, trascorre con me interi pomeriggi e parliamo, parliamo, e lui mi racconta gli aneddoti più belli e divertenti. Una volta, però, gli chiesi di parlarmi del periodo in cui era partigiano. Lui si fece serio e cercò di cambiare discorso ma io, incuriosita dalla sua reticenza, lo esortai a parlare, e lui cedette alla mia insistenza.
“Quella della guerra fu l’esperienza più drammatica della mia vita – cominciò mio nonno – io ero sposato da meno di un anno, quando fui richiamato alle armi. Sarei dovuto entrare negli eserciti alleati ai tedeschi. Era il `43. Dovetti salutare mia moglie e il bambino che gia cresceva dentro di lei, e mettermi in viaggio, con il rimorso di lasciarla sola e con un figlio in arrivo, e con il triste pensiero che forse non l’avrei più rivista e non avrei mai conosciuto mio figlio. Ero stato assegnata ad una caserma in un paese vicino Roma, Civitavecchia. Quando vi arrivai, fui assegnato al deposito armi; ma, due o tre settimane dopo, fui mandato anch’io sul campo di battaglia poiché l’esercito aveva perso molti uomini, e mancò poco che, una o due volte, ci rimettessi la pelle. Poi, un giorno, fui ferito gravemente al braccio e fui portato in un ricovero. Lì divenni amico di un ragazzo che aveva poco più di vent’anni e che veniva, come me, dalla Calabria, da Scilla. Andammo subito d’accordo. Si chiamava Beppe. Per la prima volta, dopo tanti mesi,mi sentii come a casa mia. Beppe era l’ultimo di sette fratelli,tutti maschi e tutti arruolati. Ma il più grande, Gianni, aveva disertato per allearsi con i partigiani, e dopo un paio di giorni capii che anche Beppe l’avrebbe fatto. Fu lui stesso a parlarmene, poco prima che venissi dimesso: “Io non ci torno a combattere per un dittatore che ci vuole sfruttare tutti. No, non mi farò ammazzare per lui. Hanno ragione mio fratello ed i partigiani, che vogliono l’Italia libera. Ed io, quasi quasi…”; ma poi si fermava, forse perché capiva che, anche volendolo, non sarebbe riuscito a fuggire. Anch’io restavo un po’ pensoso quando faceva questi discorsi, perché sapevo che aveva effettivamente ragione. Ma neanch’io capivo come avremmo potuto scappare, visto che il ricovero si trovava vicino all’accampamento. Una sera, però, fui svegliato da Beppe: “Sono riuscito a mettermi d’accordo con mio fratello – mi disse – che ci aiuterà a fuggire ed a raggiungere lui ed i suoi amici. Che fai, vieni con me?”.Benché fossi ancora scosso per il brusco risveglio, capii benissimo ciò che mi proponeva: “Ma … quando?”, cominciai a dire mettendomi a sedere sul letto: “Stanotte. Ora, subito” fu la sua risposta secca e decisa. Io non sapevo che fare. Ma, alla fine, decisi di seguirlo,perché, pensavo, se fossi morto,l’avrei fatto per una giusta causa. Mi alzai e rapidamente mi vestii. Beppe aveva già preparato tutte le sue cose; io raccolsi le mie in fretta e furia ed uscimmo dalla stanza. La sentinella ci vide, ma non disse nulla, faceva parte del piano. Attraversammo l’accampamento in punta di piedi e, quando fummo fuori, ci nascondemmo in un bosco che si trovava lì vicino. Beppe, che teneva la torcia elettrica, controllava la strada e ben presto arrivammo da suo fratello, che non parve molto contento di vedermi. Appena mi scorse: “E questo -chiese al fratello- che te lo sei portato a fare? Ho già dei problemi per nascondere te!”.Beppe replicò che ero suo amico, che venivo dalla Calabria, che ero un bravo soldato, e lui si calmò. Ma, dopo un po’, quando fu ora di spostarci, Gianni mi si avvicinò con una benda e disse: “Mi dispiace, ma non puoi vedere dove vi porterò”. Mi legò la benda intorno agli occhi, mi diede un colpo in testa ed io caddi a terra, tramortito. Mi risvegliai la mattina seguente, quando il sole era già alto. Avevo un gran mal di testa, forse per il colpo ricevuto la sera precedente. Mi guardai intorno e vidi una piccola stanza con due letti, un armadio, un tavolo e delle sedie. Beppe era seduto sull’uscio, di spalle, e non capivo bene cosa facesse. Mi alzai intontito e mi avvicinai al tavolo, dove c’erano dei panini imbottiti.Ne presi uno e andai a sedermi accanto a Beppe, che stava scrivendo: “Ciao-gli dissi- che cosa scrivi?”. “Una lettera per la mia famiglia. Chissà come saranno in pensiero…”. “Già…-commentai io un pò giù di morale. Le sue parole mi avevano ricordato la mia famiglia; il ragazzo lo capì e mi chiese di parlargliene: forse in quel modo avrei sofferto di meno. Ed io gli raccontai di mia moglie,e del figlio che ancora doveva nascere quando ero partito e che adesso doveva avere qualche mese. Beppe sospirò: “Beh, tu almeno hai avuto il tempo di farti una famiglia. Io, invece, ho potuto solo fidanzarmi con una ragazza del mio paese. Si chiama Ida ed ha ancora diciassette anni. Quando torno la sposo”. Poiché entrambi avevano un triste presentimento, quello di non ritornare più alla nostra terra e alle nostre famiglie, cambiammo discorso, e Beppe disse che suo fratello si era comportato in quel modo la sera precedente perché quella cascina dove noi ci trovavamo era una base segreta dei partigiani. Noi saremmo rimasti lì per circa due mesi, finché non si fossero calmate le acque.
Invece in quella cascina a ridosso delle montagne fummo costretti a trascorrere quattro mesi.
Passavamo le giornate a discutere con il mio amico di qualsiasi argomento ma, gira e rigira, molto spesso arrivavamo a parlare lui di Ida, ed io di mia moglie e di quel figlio che, pensavo, non mi avrebbe riconosciuto, se mai avessi fatto ritorno a casa. Suo fratello veniva a trovarci spesso, ci portava da mangiare, ci diceva le ultime notizie, e prendeva le lettere che Beppe scriveva a Ida e alla sua famiglia.
Poi, una sera, egli tornò insieme a due suoi compagni, dicendoci che era giunta l’ora di scendere a valle ed aiutare i partigiani a combattere. Ci preparammo e, naturalmente, io fui bendato e guidato da uno dei due uomini. Ci incamminammo giù per la montagna con enormi difficoltà, a causa del tortuoso percorso. Furono allora costretti a togliermi la benda. Giungemmo, dopo circa un’ora di cammino, ad un’altra baracca dove c’erano parecchi uomini. Uno di essi si rivolse a Gianni: “Bentornato. Avete avuto problemi?”. “No -rispose- questo è mio fratello, e questo è il suo compagno”.
L’uomo, che doveva essere uno dei capi ci strinse la mano e guardò con aria accigliata Beppe, preoccupato, forse, dalla sua giovane età. Poi, egli si allontanò con Gianni e noi ci mettemmo in un angolo. Non ero tranquillo, e non ne capivo il perché, visto che non era la prima volta che combattevo. Anche Beppe era nervoso ed io compresi che aveva paura, ed era giusto perché, a vent’anni, si aveva il diritto di avere paura. Poi Gianni venne ad avvertirci che di lì a poco saremmo partiti e noi due avremmo fatto parte di coloro che precedevano il grosso del gruppo. Beppe protestò: “Ma stai mandando allo sbaraglio tuo fratello!”. Gianni rispose duramente: “Tu qui non sei mio fratello, sei un soldato qualunque che lotta e si sacrifica per la libertà della sua patria. Ti avevo avvertito che non sarebbe stato facile, vero?”. Beppe abbassò gli occhi e annuì, e il fratello si allontanò. Povero Beppe, pensai, troppo giovane per capire realmente il “sacrificio per la patria”. Così partimmo;Beppe era molto nervoso e si voltava e rivoltava ad ogni rumore.
C’era poca luce, non vedevamo bene, e la strada era accidentata.E purtroppo accadde ciò che temevo. Un gruppo di soldati fascisti ci colse all’improvviso e ci circondò. Cominciò la battaglia e arrivarono gli altri partigiani, ma eravamo comunque in numero minore. Fui ferito e Beppe cercò di condurmi fuori dal combattimento.
Appena mi alzai, cominciammo a scappare verso l’interno, ma ci vide un fascista,che purtroppo sparò su Beppe e lo colpì per ben due volte. Mi fermai e cercai di farlo rialzare, ma non ce la faceva:”Lasciami qui, scappa,per me è finita”. Non gli detti retta, lo presi in braccio ed entrai nel bosco. Nessuno mi seguì, per fortuna, e dopo aver corso un po’ , per quanto il mio compagno me lo permettesse, rallentai il passo. Beppe, che aveva perso i sensi, si risvegliò e, ancora una volta, mi chiese di lasciarlo al suo destino,altrimenti avrebbero preso anche me. Ma io protestai:”Non ti lascio,e tu non puoi arrenderti così! Pensa… Pensa a Ida!”. Ma Beppe aveva nuovamente perso i sensi. Arrivati alla riva di un fiume mi fermai, e adagiai Beppe sul terreno. Aveva la febbre alta e i brividi. Lo coprii anche con la mia giacca e cercai di pulire le ferite con l’acqua. Ma il ragazzo cominciò a delirare. Passai la notte accanto a lui e poi, verso l’alba, egli riprese conoscenza per un attimo:” Ormai lo so, è giunto il mio momento; ti chiedo solo un favore: prendi la catenina che ho al collo e portala a Ida, come pegno del mio eterno amore. Mi dispiace che finisca così, ma ognuno ha un destino, ed io non posso cambiare il mio… Avrei voluto avere soltanto il tempo di sposarla…”, ma non riuscì a finire la frase, ed esalò il suo ultimo respiro. Il suo volto assunse un’espressione serena, forse perché il suo ultimo pensiero era stata Ida.
Guardando quel ragazzo ormai morto, non potei trattenere le lacrime;e piansi, piansi amaramente perché capii che non vi erano giuste cause per cui combattere, soffrire e morire.
Vidi l’alba illuminare con i suoi colori leggeri il volto beato del mio amico. Mi alzai e scavai una fossa accanto ad un albero, vi seppellii il ragazzo e poi incisi sul tronco il suo nome ed il giorno della sua morte; e poi mi fermai ad osservare l’alba che, con i suoi colori e le sue sfumature indefinibili, riportò in me calma e tranquillità”
Mio nonno sospese un attimo il racconto, ma io non ero del tutto soddisfatta: “E la catenina che fine fece?”. “Ah, già… la catenina – riprese- Dunque, dopo la morte di Beppe cercai il modo di tornare a casa e, dopo essere arrivato in un paese, chiesi indicazioni per Roma. Seguii la strada sempre attraverso i boschi e, giunto a Roma,mi nascosi in un treno diretto a Napoli. La stazione era piena di soldati fascisti, e salire sul treno fu un’impresa difficile, ma ci riuscii. Poi da Napoli proseguii a piedi; ma, per fortuna, lungo la strada mi fu dato un passaggio in automobile fino a Palmi. Quindi,da lì, raggiunsi a piedi Scilla. Arrivato in paese, cercai la casa della famiglia di Beppe e, quando vi arrivai, fui accolto da una donna anziana, la madre del ragazzo, vestita tutta di nero. Mi disse,fra le lacrime, che aveva saputo la notizia da Gianni. Accanto a lei vi era una ragazza, anche ella vestita a lutto e con gli occhi gonfi di pianto. Era Ida. Anche lei mi conosceva, Beppe le aveva scritto di me nelle ultime lettere. Quando le diedi la catenina, non riuscì a trattenere le lacrime. Poi, dopo essersi calmata, me la restituì dicendo: “Per Beppe siete stato come un fratello in questi ultimi mesi, me lo scriveva nelle sue lettere. Lo avete capito ed aiutato quando più ne aveva bisogno. E’ più giusto, quindi, che teniate voi la catenina”. Rimasi colpito dalla gratitudine di quella ragazza,così giovane, ma così matura e responsabile. E la ringraziai. Poi presi la strada verso casa. Arrivai nel mio paese a notte fonda e,quando entrai in casa, tua nonna mi accolse con la canna di un fucile puntata contro di me, non pensando che fossi io. Anche per lei c’era la guerra, e non era facile. Quando mi riconobbe gettò il fucile e mi corse incontro piangendo di gioia. Ci abbracciammo forte:entrambi avevamo perso la speranza di vivere quel momento. Poi mi fece vedere mia figlia, e la sensazione che provai è indescrivibile.La bimba era stata chiamata Lucia, come avevamo deciso io e tua nonna prima che partissi, ma, mettendole al collo la catenina, le diedi un secondo nome: Ida.”
Stavolta mio nonno aveva proprio finito, ed io, seppur a malincuore, non gli chiesi nulla, perché aveva già le lacrime agli occhi. Mi dispiacque di aver tanto insistito, e glielo dissi; ma lui sorrise e rispose: “Non importa. I ricordi, talvolta, sono dolorosi, ma servono. Oggi, ad esempio, grazie ad essi, hai compreso che sentimenti come l’amore, l’amicizia e la lealtà, non si fermano neanche di fronte alla morte.”

3) In nome dell’amore
L’adolescenza: l’età più complessa e straordinaria di tutta la vita dell’uomo, E’ quell’età che si aspetta trepidamente quando si è piccoli, che si detesta quando la si sta vivendo, che si ricorda con un sorriso nostalgico quando si é ormai adulti. E’ l’età in cui si cambia, ci si trasforma da un momento all’altro per assumere mille atteggiamenti, ciascuno diverso dagli altri, senza che nessuno di essi ci convinca veramente. Insomma, come ci ripetono spesso i genitori sospirando, non si è nè carne né pesce. L’adolescenza è l’età in cui tutte le emozioni si vivono con trasporto e sentimento. Insomma, è l’età più bella. Almeno è questo ciò che ripeteva sempre mia nonna.
Ricordo i tanti pomeriggi trascorsi insieme vicine al fuoco: io leggevo romanzi d’avventura, mentre lei ricamava tranquilla. Diceva sempre che avrebbe voluto ricamare tutte il corredo per le mie nozze. Io,spirito ribelle e convinta femminista, ribattevo affermando che non mi sarei mai sposata; lei non rispondeva, ma accennava soltanto un sorriso malizioso e pronunciava un “Vedrai…” a mezz’aria.Quando anche per me cominciarono i “sospiri d’amore”, come direbbe il poeta, fu la sola che riuscì a capirmi, a sostenermi ed addirittura a farmi da complice per ottenere qualche permesso in più dai miei genitori. Poi, una sera, le chiesi di raccontarmi la sua storia d’amore con il nonno. Lei si fece seria e tentò di cambiare discorso, ma, incuriosita dalla sua reticenza, la esortai a parlare. E lei cedette alle mie insistenze e cominciò a raccontare.
“Conobbi Antonio l’estate in cui scoppiò la guerra, nel ‘40. Io allora avevo solo diciassette anni e lui venti, Lavorava come contadino nella tenuta di campagna della nostra famiglia.Sebbene fossi così giovane, mio padre, convinto di fare il mio bene,mi aveva promessa in sposa ad un giovane rampollo di una ricca casata nobiliare. Lo avevo incontrato solo una volta,in occasione del fidanzamento, e certo non ne ero innamorata. Tuttavia acconsentii, sia per quieto vivere sia perché sapevo che un mio rifiuto non avrebbe cambiato di molto le cose. Quella sarebbe dovuta essere l’ultima estate che trascorrevo nella tenuta di famiglia da “signorina”, perché presto ci sarebbe stato il matrimonio. Ma non bisogna mai Sottovalutare l’opera del Destino.
Un giorno, mentre già calava la sera, mi affacciai dal terrazzo della mia camera per assistere al meraviglioso spettacolo della campagna al tramonto, con le sue seriche sfumature. Respirai forte il profumo intenso dei mille fiori che faceva capolino fra l’erba del prato, e sorrisi felice di fronte a quella dolce immagine, quando a un tratto lo vidi. Era seduto sotto un tiglio e,mentre intagliava del legno, fischiettava una strana melodia. Non lo avevo mai visto prima. Non mi era permesso parlare con i braccianti al nostro servizio.
Mio padre mi aveva fatto crescere sotto una campana di vetro per proteggermi da tutto e tutti. Ma non ci si può proteggere dall’amore.
Quando alzò il viso, forse perché aveva avvertito la mia presenza,vidi due occhi scuri e penetranti che possedevano tutta la forza della nostra terra, la Calabria. No,non ridere, so bene che starai pensando che sono scene da telenovela, ma andò proprio così. E comunque non mi innamorai di lui a prima vista. Appena mi vide smise di fischiettare e gridò:”Cosa c’é da guardare? Non hai mai visto un ragazzo che fischia? Tornatene ai tuoi ricami!”. E gettando per terra il pezzo di legno che stava intagliando se ne andò. Lo sdegno e la collera mi assalirono.Come osava quel rozzo contadino rivolgersi a me con quel tono, a me,figlia del suo padrone? No,non mi fece proprio una bella impressione.
Però mi ricordai di lui e cercai di sapere chi fosse. Scoprii che si chiamava Antonio e che era un ragazzo molto schivo e irascibile. In un primo tempo pensai di riferire l’accaduto a mio padre, che lo avrebbe sicuramente punito. Ma poi ci ripensai e preferii tacere.
Rividi Antonio pochi giorni dopo. Io stavo facendo una passeggiata e lo scorsi sdraiato sotto un albero, con in mano un foglio e una matita.
Avrei voluto richiamare la sua attenzione con una battuta cattiva,per vendicarmi di quello che era accaduto, ma non me la sentii e dissi semplicemente:”Buongiorno”. Lui alzò subito lo sguardo e si fece serio,ma stavolta non disse nulla. Restammo lì a guardarci per un po’; poi lui, in tono sarcastico, chiese:”Ma suo padre non le ha vietato di rivolgere la parola a noi contadini?”.”Io posso fare ciò che voglio,sono nella mia proprietà”, ribattei acidamente cercando di scendere da cavallo. “Oh, oh! Ma come siamo permalose. Aspetti che l’aiuto a scendere. Suo padre non me lo perdonerebbe mai, se lei cadesse da cavallo!”
Ero tentata dal dargli uno schiaffo. Era troppo insolente! Ma, allo stesso tempo, non me ne volevo andare: “Cosa stai scrivendo?”. “Sono affari miei, principessina!”, sbottò ripiegando in fretta il foglio.
“Sai bene che non sono una principessa, sciocco! Ho un nome anch’io!”.
“Ah, sì? E, di grazia, potrebbe dirmelo?”. “Angela”. Lui riprese in tono ironico:”Ma che bel nome, le calza a pennello!”. Ero stufa di sopportare le sue battute:”:Basta! Mi hai veramente stancata e offesa con il tuo sarcasmo.” Mi voltai e tornai verso il cavallo. Lui si zittì un attimo ma poi riprese, mentre io mi allontanavo, e gridò: “Ma sì, va’! Vai a raccontare tutto al tuo paparino che, come a1 solito, ti difenderà!
E invece neanche stavolta lo dissi a mio padre, e Antonio in qualche modo lo venne a sapere, perché una notte, pochi giorni dopo l’accaduto,mi chiamò tirando dei sassi contro la mia finestra. Io mi alzai e mi affacciai assonnata e stupita. Lui si arrampicò su un albero i cui rami si sporgevano fino al mio terrazzo:”Ho saputo che non hai detto niente a tuo padre del nostro incontro”. “Sì, é così; non corro da mio padre per ogni stupidaggine!”. Lui mi sembrò in difficoltà: “Beh, si…
Comunque sono venuto solo per… ecco,per… scusarmi. Sì, insomma, forse ho esagerato. Scusami”. Non potevo credere a ciò che avevo udito:”Va bene, scuse accettate. Ricominciamo tutto da capo. Io mi chiamo Angela”. Non so cosa mi era preso, ma avevo ormai dimenticato tutti i divieti di mio padre. Antonio mi guardò un po’ incerto, ma poi sorrise e strinse la mano che gli porgevo: “Ed io Antonio», e così dicendo mi porse un foglio:”Questo è ciò che stavo scrivendo quella mattina. E’ una poesia. Vedi, io sono solo un contadino, ma so leggere e scrivere,e vorrei farmi una cultura. Ora leggi quello che ho scritto. Se ti piacerà mi aiuterai, va bene?”. Fui molto sorpresa da quella proposta, ma tuttavia accettai. Presi il foglio e lo mandai via, perché mio padre avrebbe potuto svegliarsi, ma non senza prima avergli detto che lo avrei cercato l’indomani pomeriggio durante la mia passeggiata a cavallo.
Quando lo incontrai,il giorno dopo,mi sembrò teso e ansioso:”Scusa se ti ho fatto aspettare -cominciai- ma mi é sempre difficile uscire da sola”. Antonio tagliò corto:”Sì, sì, lo so ma… allora? Cosa pensi di ciò che ho scritto?”. A vederlo così preoccupato per il mio giudizio,sorrisi e risposi: “Sì, come contenuto non c’é male… Ma ci sono parecchi errori. Devi curare la forma, il lessico. Comincia col leggere questi libri. Il segreto per scrivere bene è proprio leggere tanto”.
Antonio guardò stupito i libri che gli porgevo: “Allora mi aiuterai,vero?”. “Certo. Ma ti dovrai impegnare al massimo. Ogni giorno ti terrò lezioni di grammatica, morfologia e sintassi, e ti darò dei compiti, va bene? Il ragazzo era raggiante: “Grazie! Mi impegnerò, vedrai!”.
E così cominciai a seguirlo nei suoi studi. Ogni giorno, quando uscivo per la mia passeggiata a cavallo mi incontravo con lui, correggevo i suoi compiti, riprendevo i libri che aveva finito di leggere e gliene prestavo altri. Trascorrevamo insieme circa due ore al giorno. Col tempo scoprii diversi lati del suo carattere. Dietro quello sguardo schivo e ribelle si nascondeva uno spirito romantico che si manifestava solo in ciò che scriveva.E’ inutile dirti che ben presto mi innamorai di lui e lui di me. Ma eravamo entrambi molto orgogliosi e non volevamo assolutamente ammettere di aver bisogno l’uno dell’altra.
E anche l’estate stava ormai finendo,e noi fummo travolti dalla guerra.Tutti i contadini, alle dipendenze di mio padre furono chiamati alle armi, anche Antonio. Fummo costretti,quindi,a interrompere le nostre lezioni, senza che nessuno dei due avesse svelato i suoi veri sentimenti per l’altro. Ma la notte prima di partire Antonio si arrampicò sull’albero vicino al mio terrazzo e mi svegliò. Dandomi un pacchetto mi disse;”Domani dovrei partire con gli altri per arruolarmi nell’esercito fascista. Ma io credo nella libertà e non posso accettare di combattere per un dittatore. Mi darò alla macchia e mi unirò ai partigiani. Queste é il ringraziamento per tutto ciò che hai fatto per me… non ti dimenticherò, e un giorno verrò a cercarti… e forse allora…”.
Non riuscì a finire la frase. Ci guardammo per un lungo attimo. Mi sfiorò i capelli e mi baciò. Poi si voltò di scatto e scese velocemente dall’albero, per sparire nel buio della notte. Io rimasi immobile.Non mi rendevo conto di ciò che era successo, forse perché tutto era accaduto troppo in fretta. Tornai in camera e aprii il pacchetto. All’interno c’era un anello e una lettera in cui Antonio mi spiegava che l’anello era stata la fede nuziale di sua madre e mi confessava il suo amore.
Dopo quella notte pensavo che non l’avrei più rivisto, anche se forse sapevo dove era andato a nascondersi. Mi aveva parlato, infatti, di una sorella che abitava assieme alla sua famiglia in un paese sul mare,distante solo poche ore dalla tenuta. Ben presto, comunque, la notizia che Antonio aveva preferito darsi alla macchia e diventare partigiano piuttosto che combattere per il duce, giunse all’orecchio di mio padre che lo maledisse più volte e disse che avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutare i fascisti a trovarlo e a punirlo. Io non sapevo più cosa fare.La paura e la preoccupazione aumentavano ogni giorno, vivevo nel terrore che arrivasse la notizia della sua cattura. Poi un giorno giunse alla tenuta un’automobile di grossa cilindrata e ne scese un generale fascista scortato da due soldati. Riconobbi subito il graduato: era il barone Ubaldo degli Spina, il mio fidanzato che, come già avevo appreso da mio padre,aveva seguito la carriera militare e si era distinto per la cattura di molti partigiani. La sua visita inaspettata mi gettò in preda allo sconforto, poiché temevo che fosse in qualche modo collegata ad Antonio.
Mio padre lo accolse con ogni onore e gli chiese a cosa dovesse la sua visita. Il barone spiegò che era solo di passaggio, poiché alcune indagini su un gruppo di partigiani lo aveva condotto da queste parti, ed ora era ad un passo dall’arrestare proprio il capo. Mi sentii svenire:capii che si trattava di Antonio. Il barone si accorse che ero impallidita e si preoccupò; ma io lo rassicurai dicendo che era solo un capogiro e mi congedai. Ma appena uscita mi misi ad origliare e scoprii il piano del barone per la cattura di Antonio. Egli era già stato arrestato, ma era riuscito a scappare e con ogni probabilità ora si trovava a casa della sorella. Avrebbero aspettato due o tre giorni e poi lo avrebbero costretto a venire allo scoperto.
Mi sentii persa. Dovevo avvertire Antonio. Conoscevo più o meno la strada per il paese della sorella e, se fossi partita di notte, non avrei dato nell’occhio e l’indomani, quando si fossero accorti della mia scomparsa, sarebbe stato troppo tardi. Corsi in camera mia e mi preparai per la fuga. Con me presi solo l’anello, la lettera di Antonio e la coroncina del rosario, regalatami da mia madre in punto di morte.Erano le cose a me più care e le presi perché avevo il triste presentimento che non avrei più fatto ritorno a casa.
Quella sera il barone rimase da noi. Quando tutto tacque, io mi presi di coraggio, mi calai giù dall’albero vicino al terrazzo e corsi verso le scuderie. Presi il cavallo di mio padre e percorsi tutta la tenuta il più silenziosamente possibile. Appena fuori da essa, mi lanciai al galoppo, sebbene vi fosse ben poca luce: solo la luna i miei passi.
Arrivai nel paese la mattina presto e mi feci indicare la strada per la casa della sorella di Antonio. Quando vi giunsi vidi una donna che stava attingendo dell’acqua ad un pozzo e mi avvicinai. Ella,sorpresa,si voltò verso di me e chiese se mi fossi persa. Le spiegai dunque che ero la figlia del signore presso cui aveva lavorato Antonio prima della guerra e dissi anche che avevo un messaggio importante per lui.
La donna mi guardò pensosa e poi chiese: “Tu sei Angela, vero? Antonio mi ha parlato di te. Io sono Maria, sua sorella. Vieni dentro, il viaggio deve averti stancata.” Io assentii. La lunga cavalcata mi aveva affaticata, e l’ultimo tratto lo avevo dovuto percorrere a piedi, perché il cavallo si era azzoppato. Entrammo in casa e mi guardai intorno.
C’erano un tavolo, poche sedie e una credenza. Un ambiente povero, ma pulito e curato. Maria mi fece sedere e mi porse un po’ d’acqua.
Io le raccontai per filo e per segno ciò che era accaduto. Maria ascoltò tutto con interesse, e quando finii commentò:”Devi volergli molto bene se sei venuta fin qua mettendo a repentaglio la tua vita”. Io sorrisi:”Prima di conoscere tuo fratello non sapevo neanche cosa fosse l’amore.Adesso so che non m’importerebbe di morire pur di saperlo in salvo. Ma dov’ è adesso? Lo devo raggiungere prima che sia troppo tardi” . “Antonio si è rifugiato fra i monti, in una grotta. E’ un posto sicuro, difficilmente potrebbero scoprirlo. Ma forse hai ragione, sarebbe meglio avvertirlo. Solo che mio marito non c’è e…”.”Andrò io! Non ti preoccupare, puoi fidarti. Spiegami solo come arrivare alla grotta”.
Maria mi chiese incerta:”Sei sicura che nessuno ti abbia seguita?”.Annuii trepidante ed ella si decise a spiegarmi dove si trovava Antonio.
Mi preparò qualcosa da mangiare, visto che avrei dovuto camminare per due giorni; mi riposai un po’ e poi cominciai il cammino. La strada era tortuosa e accidentata e fu difficile percorrerla. La prima notte mi fermai in una grotta che ero riuscita a trovare grazie alle scrupolose indicazioni di Maria. Naturalmente, però, non chiusi occhio quella notte, perché pensavo che mio padre si fosse accorto della mia assenza e se setacciando la zona assieme al barone avessero trovato il cavallo delle nostre scuderie vicino al paese di Antonio, non sarebbe certo stato loro difficile collegare i due fatti.
Appena fu l’alba ripresi il cammino cercando di camminare più velocemente possibile, per quanto mi permettesse l’impervio percorso.
Finalmente sul far della sera giunsi nei pressi della grotta. Stavo per chiamare Antonio, quando mi sentii afferrare da due rudi mani che mi tapparono la bocca; cercai di liberarmi dalla presa, ma apparve il barone che, guardandomi con disprezzo mi disse che mi avrebbero tolto le mani dalla bocca, a condizione che non gridassi; assenti. Mi sentivo persa. Mi avevano seguita, e se fosse successo qualcosa ad Antonio, io ne sarei stata la causa. Il barone mi chiese:”Avreste voluto salvarlo?Perché?”. Non sapevo se rispondere o meno; ma la cosa che mi stava più a cuore in quel momento era la salvezza di Antonio e chiesi disperata:”Dov’è? Cosa gli avete fatto, bastardi?”.”Eh, che parole! Questo linguaggio non é adatto ad una signorina del suo rango, che presto sposerà un’alta carica dell’esercito fascista!”.
Non riuscii a controllarmi. Erano anni che sopportavo in silenzio e la mia ribellione esplose tutta in quel momento:”Io non ti sposerò mai,perché tu non vali nemmeno una briciola di quell’uomo che insegui da tempo, anche se hai tutti quei gradi e sei temuto da molti soldati,mezze calzette come te. Lui ha coraggio, ha degli ideali e lotta per difenderli. Tu non hai niente, esegui gli ordini di un dittatore, uccidi solo per il gusto di farlo! Vigliacco!”
Il barone ammutolì. Cercò di frenare la sua collera ma non gli riuscì:”Bene, bene! Adesso ti farò vedere io chi è il vigliacco”. Si voltò e si diresse verso la grotta. Io stavo per gridare, ma un soldato mi pose di nuovo una mano sulla bocca e mi puntò una pistola alla tempia.
Dopo pochi minuti il rumore di uno sparo lacerò il silenzio della montagna. Il mio cuore si fermò per un attimo, smisi di respirare. I due soldati che erano rimasti con me non sapevano che fare. Avrei voluto gridare, correre, ma mi sentivo come morta; fIn quando un soldato cominciò a trascinarmi verso l’automobile. Ma,mentre ci allontanavamo, ci fu un altro sparo. Il soldato si voltò di scatto ed io con lui.
Il suo compagno era a terra. Alzammo lo sguardo verso la grotta. Antonio era lì con una pistola in mano. E ci fu un terzo colpo. Subito dopo sentii che il soldato che mi teneva aveva allentato improvvisamente la presa, ed ebbi l’impressione che un qualcosa di caldo mi scivolasse lungo la schiena. Mi voltai verso l’uomo: aveva un buco al centro della fronte da cui zampillava del sangue che macchiava il mio vestito.
Attonita, mi voltai ancora verso Antonio, Era troppo: svenni.
Quando mi ripresi ero nella grotta e accanto a me c’era Antonio. Confusa, chiesi cos’era successo ed egli mi ricordò la sparatoria. Al che chiesi concitata: “Ma tu come stai? Quando ho visto il barone dirigersi verso la grotta…temevo che tu…preso alla sprovvista…”. Antonio cercò di rassicurarmi e mi spiegò che, anche se il barone lo aveva colto all’improvviso, era riuscito comunque a difendersi e ad ucciderlo. Io ero molto turbata e stanca. Tutta la fatica fatta per raggiungerlo cominciò a farsi sentire. Egli lo capì e mi fece stendere di nuovo per dormire un po’. Ormai il peggio era passato ed io e tuo nonno potevamo finalmente sognare un futuro insieme. Il resto lo sai. Io non feci più ritorno a casa. Restai con Antonio fra i monti fino alla fine della guerra. Poi tornammo e costruimmo una casa vicino a quella di sua sorella e ci sposammo. Non feci alcuna fatica ad adattarmi al loro stile di vita, e non rimpiansi mai i lussi che avevo abbandonato andandomene di casa. E poi arrivò tua madre, la nostra gioia più grande”.
Questo fu l’episodio della sua vita che più mi colpì fra i tanti che mia nonna mi raccontò prima che si ammalasse di arteriosclerosi.
Questa maledetta malattia la costrinse ad una vita vegetativa per quasi sette anni. Sembrava non capire più nulla di quello che le veniva detto. E allora cominciai io a raccontarle tutte le storie che lei aveva narrato a me. Le raccontavo della sua giovinezza, di mia madre, delle giornate trascorse insieme, aspettando che lei mi desse un segno,mi facesse capire che mi stava seguendo, che non mi aveva abbandonato.
Il giorno in cui morì, io ero con lei. Le stavo raccontando proprio del suo grande amore per il nonno e le dicevo ciò che lei aveva detto a me:”Ricordi, nonna: hai sempre detto che desideravi che io avessi un amore bello e forte quanto il tuo e del nonno: un amore capace di vincere il tempo e la morte, perché, mi ripetevi sempre, anche se chi si ama si perde, l’amore resiste e la morte non ha più senso,..”.
La guardavo con occhi ansiosi, sperando anche solo in un movimento della mano che mi facesse capire che lei era ancora con me, che mi ascoltava. Ma ella rimaneva immobile. Non riuscii a continuare. Nascosi la testa sul suo grembo e piansi in silenzio. Poi, pian piano, mi asciugai le lacrime e continuai:”Avete fatto tanto voi due in nome del vostro amore! Hai corso mille pericoli per lui, hai abbandonato persino la tua famiglia, e lui ha ucciso per te… quanto doveva essere grande il vostro amore! E io ti invidio per questo, perché so che non mi innamorerò mai,..che non mi sposerò mai…”. Avevo smesso di piangere ma avevo ancora la testa sul suo grembo. E allora la sua mano mi accarezzò i capelli. Mi alzai di scatto e la vidi mentre, sorridendo, sospirava:”Vedrai…”. Poi assunse un’espressione serena, quasi beata,ed esalò il suo ultimo respiro.

4) “L’Isola che non c’è”
“La Vita non è fatta di esperienze che nascono e finiscono, ma di persone che crescono e cambiano insieme e semplicemente si arricchiscono vicendevolmente… Altrimenti che saremmo venuti a fare qui?”
Quando ho letto per la prima volta questa riflessione ero su un aereo che da Càdiz, città della regione spagnola dell’Andalusia, mi riportava in Italia, a casa; era contenuta in una lettera di saluti scritta per me da Francesco, un ragazzo italiano conosciuto nei sei mesi che ho trascorso in Spagna.. e subito queste poche parole mi sono apparse come il miglior modo possibile per descrivere in maniera sintetica un’esperienza come quella che ho avuto la fortuna di vivere, l’ERASMUS.
ERASMUS…questa parola, quasi magica, racchiude in sé un carico di emozioni, scoperte, viaggi, esperienze…Certo, agli occhi dei più e dei meglio informati è solo la sigla di un progetto universitario per “l’assegnazione di borse di studio per la mobilità internazionale”, come recitano i mille documenti che lo studente universitario deve compilare, tra tante peripezie, cercando di non perdersi nei meandri del periglioso iter burocratico; ma chi ha preso parte a questo progetto vi può assicurare che esso offre molto di più della possibilità di trascorrere un periodo di studio all’estero…L’ERASMUS è un momento di crescita e di maturazione lungo sei, sette mesi, che si concretizza nell’incontro con ragazzi e ragazze provenienti da tutta Europa, con cui confrontarsi in un dialogo costante, che coinvolge persone dalla mente aperta, pronte ad accogliere la “diversità” come momento di occasione di arricchimento personale, dotate di un pizzico di sana follia, proprio sulle orme di quanto indicato da ERASMO da ROTTERDAM nell’ “Elogio della follia”.
Per me tutto questo è iniziato quasi per caso, quando nel marzo dello scorso anno una mia collega di università mi convinse a presentare la richiesta per una borsa di studio per un periodo di soggiorno all’estero. A maggio sapemmo di essere tra i vincitori della borsa di studio e conoscemmo il nome della nostra destinazione, una cittadina della Spagna del Sud, Càdiz… Cadice per noi italiani.
Solo allora cominciò a prendere forma l’idea che da lì a qualche mese ci saremmo ritrovate in un mondo completamente diverso, dove si parlava una lingua a noi quasi sconosciuta, a tremila km da ogni nostro affetto, da ogni cosa che rappresentasse il nostro quotidiano e la vita di sempre.
Partire o non partire? Il dubbio attraversò i nostri pensieri, e con esso l’idea che stavamo per compiere un salto nel vuoto. Ma fummo brave a mettere da parte ogni remora e ogni paura e ci preparammo con tanto entusiasmo per compierlo, questo benedetto salto.
E così, il ventiquattro gennaio di quest’anno, armate di tante valige e tanta voglia di nuovo, abbiamo cominciato la nostra avventura, accompagnate alla partenza dagli sguardi ansiosi e dalle innumerevoli raccomandazioni di parenti e amici.
E da quel momento un mondo totalmente nuovo si è aperto ai nostri occhi: per sei mesi abbiamo vissuto gomito a gomito con spagnoli, tedeschi, francesi, belgi…e anche se il nostro quotidiano non è stato poi così diverso dal tran-tran della nostra vita universitaria in Italia ( perché anche lì c’erano corsi da seguire, libri da studiare ed esami da sostenere), comunque i sei mesi trascorsi lì rappresentano per me “un mondo a parte”, come se si fosse finalmente materializzata “l’Isola che non c’è” … ogni giorno c’è stato un incontro nuovo, una scoperta in più, un passo in avanti nel cammino di crescita personale e culturale… Per quanto dovessi esprimermi in una lingua che non era la mia, per quanto dovessi abituarmi a usi e costumi diversi dai miei, per quanto mi trovassi a tremila km da casa, mai, nemmeno per un attimo, io mi sono sentita una “straniera”, e questo perché ero circondata da persone che vivevano nella mia stessa situazione, nei cui occhi potevo ritrovare le mie stesse preoccupazioni, e con cui quindi potevo condividerle, alleggerendone il “peso”. In pochi mesi sono nate delle belle amicizie, che questa esperienza ha generato e che spero il tempo potrà cementare.
L’ERASMUS mi ha lasciato dei ricordi bellissimi, dai viaggi fatti alla scoperta di una delle zone più belle d’Europa, ricca di storia e di arte, ai tanti discorsi affrontati con i miei amici, magari di fronte a un bel piatto di pasta “all’italiana” o a una paella spagnola…e per quanto ci esprimevamo tutti in uno spagnolo più o meno stentato, alcuni aiutandosi anche con i gesti (e chi, se non noi italiani?), o con altre lingue, il realtà ho avuto la bella sensazione che tutti si parlasse in una nuova lingua, un’ Esperanto dettato dal forte desiderio di ciascuno di noi di comunicare se stessi agli altri e di conoscere di loro qualcosa in più; e in un mondo che tende a essere sempre più piccolo e ristretto per via di una globalizzazione che coinvolge solo la struttura economica della società mondiale, lasciando al margine gli aspetti culturali, mi piace pensare che, esperienze del genere possano essere un’ottima “controproposta” per un VERA globalizzazione, che permetta a ciascuno di conoscere e apprezzare le diverse culture, affinché la Vita possa essere davvero fatta da persone che crescono e cambiano insieme e si arricchiscono a vicenda, come si è augurato quel mio amico..
E a lui e a tutte le persone come lui, che amano sfidare le proprie insicurezze personali e affrontare dei viaggi per riuscire con essi e con le nuove scoperte a crescere e maturare, vorrei dedicare la mia riflessione finale sull’importanza del viaggio come strumento di conoscenza e dei compagni di viaggio come tesori preziosi e indispensabili per il nostro Cammino, affidandomi ad una canzone che per me e i miei compagni di avventura è stata un po’ l’inno di questa “isola che non c’è”: “…Non voltarti ti prego, nessun rimpianto per quello che è stato, / che le stelle ti guidino sempre e la strada ti porti lontano. / Buon viaggio, hermano querido, / e buon cammino ovunque ti vada; / forse un giorno potremo incontrarci, / di nuovo lungo la strada” (Modena City Rambles)

5) Lo specchio
Il rumore dello specchio che cadendo andò in frantumi mi fece sobbalzare. Mi voltai di scatto e vedendo quello che era successo imprecai infastidita ad alta voce: “Accidenti, proprio adesso! Guarda che casino!” Una voce dentro di me, proveniente chissà da dove, mi ricordò che uno specchio rotto erano sette armi di disgrazie, e questo contribuì a far aumentare il mio disappunto e l’ansia per il ritardo che si stava accumulando. Guardai l’orologio: avevo poco più di cinque minuti per sistemare quel mezzo disastro: e con una risata nervosa mi chiesi se, per caso, non fossero già iniziati quei “temuti” sette anni. M’inginocchiai e cercai di riunire i vari pezzi per farne un mucchietto. Raccolsi velocemente i frammenti più grossi e guardai distrattamente la mia immagine che a fatica andava ricomponendosi in quell’operazione d’assemblaggio.
E rimasi fulminata: come Paolo sulla via di Damasco, la verità mi apparve davanti agli occhi, tanto improvvisa quanto attesa e cercata.
Guardai i pezzi dello specchio che riflettevano il mio viso: l’immagine era frammentata, ovviamente, ma in quel momento mi parve una cosa straordinaria: ed ebbi come l’impressione di vedere dieci, cento, mille Giulia: una uguale all’altra ma tutte diverse, tutte magicamente diverse. Presi in mano il pezzo più grande e lo posi di fronte alla mia bocca, e accennai un sorriso… E rividi lo stesso sorriso in una bimba di pochi anni: la Giulia dell’infanzia, con il suo caschetto nero nero, la frangetta dispettosa, lo sguardo colmo di curiosità e d’ingenua sorpresa. Teneva fra le braccia un bambolotto con i capelli ricci e la carnagione scura: il mio primo amore, forse l’unico che non mi abbia mai tradito.
Posai quel pezzo con delicatezza, per paura di non danneggiare il dolce ricordo dell’unico periodo veramente felice che esso conservava. E ne presi un altro, e questa volta lo misi di fronte alla mia mano destra: e l’immagine che lo specchio riprodusse era quella di una Giulia bambina, un po’ più grande della prima, intenta a disegnare, vicino al suo fedele peluche a forma d’elefante rosa, sdraiata sul pavimento di una vecchia cucina dai colori familiari, di fronte ad un gran camino bianco rallegrato dai colori e dalle scintille di un bel fuoco; e accanto a lei una dolce figura di donna, non più giovane, intenta a pulire e ripulire sempre lo stesso piatto. Mia nonna aveva sempre amato l’ordine e la pulizia, e questa sua passione era una delle poche cose che l’arteriosclerosi non le aveva fatto dimenticare. Quanti pomeriggi avevo trascorso così? Ne avevo perso il conto. Io e lei: una bimba ed una nonna che per un male misterioso, con un nome che già da solo bastava a farmi paura, era tornata fanciulla e faceva i “capricci” anche più della nipotina, Il ricordo di mia nonna fece spuntare una lacrima dai miei occhi che, cadendo, si specchiò nel frammento che presi in mano dopo aver messo da parte l’altro: e stavolta lo specchio mi presentava una ragazzina seduta tra i banchi di scuola, attenta a quello che stava spiegando il prof…. ma quella Giulia non sorrideva più, e il suo sguardo era come perso nel vuoto. Con l’inizio dell’adolescenza erano iniziati anche per me i problemi e le paure, e quella ragazzina lo sapeva bene: con lei ho imparato cos’è il pianto, la disillusione, la rabbia verso chi agisce con superficialità, offendendo i sentimenti altrui; in un’età in cui cominci a cambiare e non ti riconosci più, se nemmeno gli altri t’accettano è finita… E quella Giulia aveva corso il rischio d’ammalarsi seriamente quando cominciò a non mangiare più perché qualcuno le aveva fatto notare che l’apparecchio che doveva portare per curare i suoi denti la rendeva molto simile ad una vecchia locomotiva… Anni dopo, i medici mi avrebbero spiegato che proprio quell’episodio aveva prodotto nella mia psiche un blocco che, a sua volta, aveva causato l’interruzione del mio naturale ciclo mestruale, con tutte le relative conseguenze: un “piccolo problema” , mi dissero, che però aveva richiesto anni di cure ed analisi e medicine e diete e…
Questa volta buttai il pezzo di specchio nel mucchio con forza, facendo si che si riducesse in pezzi ancora più piccoli (come se quel gesto mi avrebbe concesso di conservare ricordi più belli di quell’età ingrata), e una scheggia mi ferì un dito: una goccia di sangue cadde su un altro frammento. E nel rosso del sangue si specchiò il rosso del primo smalto per unghie di una Giulia ormai adolescente che cercava di nascondere con belletti e allegria i mille complessi di cui soffriva, pronta a tutto pur di non svelare la sua fragilità, le sue insicurezze; solo una volta si volle fidare, totalmente presa dal suo primo vero innamoramento; ma si fidò della persona sbagliata, come capita sempre, in questi casi…
L’unica cosa che ricordo del mio primo ragazzo è il rammarico che provai quando capii che non avrei più potuto dimenticalo, visto il male che mi aveva fatto usando i miei sentimenti come fossero stati carta straccia.
Posai quel frammento con un certo sollievo e mi chiesi se è proprio vero che il tempo guarisce tutto. Il pezzo di specchio che presi dopo mi colpì per la sua forma che ricordava molto quella di un cuore… Ed è proprio sul cuore che lo posai… e stavolta le immagini furono tantissime: ad una ad una rividi tutte le persone che avevano aiutato le varie Giulia a non arrendersi e continuare la corsa, per cedersi il testimone tra un’età e l’altra, in questa bizzarra staffetta che è la vita.., amici, parenti, religiosi, insegnanti.., e fra tutti loro, scovai uno sguardo che somigliava terribilmente al mio:stessa voglia di lottare, di vivere e di costruire qualcosa di grande: mio padre, da cui ho ereditato i miei migliori pregi e i miei peggiori difetti; e accanto a quello sguardo così orgoglioso, quasi sprezzante, c’era un sorriso dolcissimo… e anche quello ricordava il mio: mia madre, che mi ha insegnato che non è necessario andare lontano per capire il senso della vita: basta amare. E accanto a quello sguardo e quel sorriso, che solo per il bene mio e di mio fratello sono rimasti sempre uniti, quasi a formare un tutt’uno, vidi una croce…
Quale delle varie Giulia che si sono succedute sia stata la prima a scoprire Dio nella mia (o dovrei dire “nostra”?) storia, questo mi è difficile da dire… Forse fu quella che vide il nonno, vittima di un incidente stradale,abbandonato sulla strada da chi l’aveva investito, lasciato a morire dissanguato; o fu quella che, impotente, vide la morte portargli via sua nonna e la sua infanzia tra l’indifferenza di medici e infermieri; o, ancora, fu quella che aveva scoperto troppo tardi il valore dell’amicizia e aveva rischiato di perdere l’affetto leale di chi le era sempre stato accanto per non aver saputo dire, almeno una volta senza nessuna paura: “Ti voglio bene”. Forse una di loro, o forse tutte insieme, non so.. .Guardando i pezzi dello specchio mi domandai quale di essi avrebbe potuto riflettere l’immagine del Dio in cui credevo.
Mi misi ad osservare la figura che tutti insieme riflettevano, e stavolta non la riconobbi: la Giulia che mi stava di fronte non era più quella dell’infanzia, con il suo bambolotto appresso, felice e sorridente; non era più quella ragazza triste e spaventata ma sicura che il domani sarebbe stato migliore perché lei l’avrebbe reso tale. Qualcosa era cambiato fra le altre immagini e quella che ora guardavo: pallida, nervosa e fragile, questa Giulia aveva perso la forza di sognare e sperare. Cercai fra i frammenti il momento esatto della storia in cui questo era accaduto, ma non lo trovai… Era stato un processo graduale, allora: una parte di me aveva iniziato a morire, soffocata da una realtà troppo dura da accettare, a volte, perché troppo diversa dai sogni di una bambina, dalle speranze di una donna che aveva un solo desiderio: amare,mentre l’altra parte aveva continuato a vivere quella realtà, adattandosi ad essa per poter in qualche modo andare avanti;e la prima moriva lentamente, giorno dopo giorno… Fino a quando non scomparve del tutto, dopo l’ennesimo litigio dei miei, forse, o dopo l’ennesimo sbaglio d’amore. E ora non c’era più; ora che avevo capito che senza di essa io non mi sarei più riconosciuta riflettendomi nello specchio della vita, che non sarei stata più la stessa e che ero pronta a tutto pur di riaverla, ora era troppo tardi… Tardi? Di scatto guardai il grande orologio appeso alla parete di fronte a me… Strano!Avrei potuto giurare di essere stata china per ore a raccogliere i pezzi di quello specchio, e invece non erano trascorsi che pochi minuti. Il tempo si ferma, quando si viaggia nei ricordi .Da un momento all’altro sarebbe arrivata Lara. Mi alzai e presi il cofanetto sopra il comodino ne svuotai il contenuto sul letto: volevo riempire quel portagioie non più con i miei averi, ma con il mio essere. Raccolsi il mucchio dei frammenti e lo riposi nel cofanetto, e poi mi sdraiai sul letto e me lo misi sul ventre.. E una voce dentro di me, che veniva proprio da lì e che io mi ero ostinata a voler ignorare, mi assicurò che non era mai tardi per ricominciare ad amare e sperare… Mi promise che l’avremmo fatto insieme.
Entrando, Lara mi trovò in quella posizione. Si avvicinò preoccupata e premurosa: “E’ tutto a posto? Stai bene?” Le sorrisi: “Mai stata meglio, grazie”, ed era vero. Lei mi guardò, pensierosa e poi chiese: “Beh… Allora andiamo?” Sempre sorridente feci un cenno di diniego: “No, ho cambiato idea. Ho deciso di non abortire.” Lara rimase in silenzio per qualche attimo e poi domandò: “Ne sei sicura?”. Presi la sua mano e la poggiai sul mio ventre: “Ogni notte, cercando di addormentarmi, rivedo la stessa scena: le luci gialle della strada, il rumore dei miei passi affrettati, la gioia di tornare a casa dopo aver superato quell’esame cosi difficile… E poi vedo il buio del vicolo e sento la rabbia di chi mi spinge contro quel muro; rivivo la violenza con cui mi strappa i vestiti e mi ordina di allargare le gambe, di “fare la brava così tutto finirà in fretta”… E ogni notte piango disperata. Cerco di capire il perché di tutto questo, impreco contro quel Dio in cui credo e che pensavo di aver perso per sempre, ormai… E poi è arrivata questa creatura, e la mia rabbia e il mio dolore volevano prendersi anche lei, dopo essersi presi i miei sogni e le mie speranze. Ed io stavo per cedere, involontariamente stavo per completare l’opera iniziata da quel bastardo. Ma non voglio essere vittima di me stessa, o forse non lo voglio più. Sono stanca di tutto quest’odio e il bimbo che porto in grembo mi insegnerà ancora una volta cos’è l’amore. Metterlo al mondo sarà il mio atto di speranza nella vita e di fede in Dio: è questo il senso di tutto quello che è successo, ora lo so”.
Lara, guardandomi, disse che non vedeva tanta determinazione nei miei occhi da molto tempo; accarezzando il cofanetto le dissi che anche io in passato avevo avuto difficoltà a riconoscermi, ma le assicurai che da quel momento in poi tutto sarebbe andato per il verso giusto. Mi alzai e le proposi di andare a fare spese; tra le altre cose, dovevo comprare uno specchio, visto che il mio si era rotto. Mettendosi il cappotto, Lara mi ricordò, tra il serio e il faceto, quel vecchio detto sugli specchi rotti… Rivolsi Io sguardo verso il cofanetto e le risposi che quel detto non sarebbe valso sicuramente per me…
Ancora oggi conservo quel cofanetto e aspetto il giorno in cui lo aprirò con mio figlio, che adesso ha solo tre anni: allora gli racconterò la storia di quello specchio rotto e con lui, finalmente, riuscirò a ricomporlo… (Vincitore per la sezione “racconto breve” alla 3^ Edizione del concorso INCONTRO CON LA POESIA organizzato presso il Villaggio S.Anna di Isola Capo Rizzuto)

6) Notte prima degli esami
Nell’ amico c’è qualcosa di noi, / un nostro possibile modo di essere, / il riflesso di una delle a1tre / identità che potremmo assumere” (A. De Carlo)
“Deve essere bello sentirsi liberi di essere se stessi e sapere che comunque c’ è qualcuno che ti ama.
Sicuramente Sara era la più sentimentale fra noi tre. Di qualsiasi cosa parlassimo, in qualsiasi momento, lei se ne doveva uscire sempre con una frase ad effetto, un “ipse dixit” che doveva lasciarci senza fiato, che. doveva porla al centro dell’attenzione.
Ma l’aspetto più interessante di questo suo particolare modo di esprimersi era che lei era sempre seriamente convinta di ciò che diceva,e perciò io e Lisa facevamo sempre molta attenzione ai suoi discorsi. Quando poi non riusciva ad esprimere a parole i suoi sentimenti, allora lo faceva con gli atteggiamenti: diventava nervosa, irascibile,oppure silenziosa e taciturna: comunque il suo umore doveva essere sempre in contrasto con quello di tutto il resto della compagnia, perché ciò che temeva di più era di confondersi fra l’altra gente, di diventare un “numero”. Forse, diceva lei, si comportava così perché in passato persone per lei molto importanti l’avevano considera proprio come “una fra le tante”, mentre lei credeva che ognuno fosse “unico”.
Sara era un’idealista, e lo sarebbe rimasta per sempre. In ogni occasione, lei sapeva perfettamente qual era la realtà, ma si ostinava a voler credere che con un po’ di sacrificio ed impegno avrebbe potuto cambiare tutto ciò che non le andava a genio; e quando i suoi sforzi fallivano, per un po’ si buttava giù, ma poi ricominciava tutto daccapo.
Io e Lisa ci siamo sempre chieste chi le dava tutta quella voglia di sognare. Noi tre ci conoscevamo da circa dieci anni ed eravamo legate da una profonda amicizia, costruita giorno dopo giorno non senza qualche difficoltà, perché comunque avevamo caratteri completamente diversi.
In quei dieci anni c’erano stati litigi furibondi per sciocchezze,rabbia ed insulti senza alcun valido motivo, ma anche pianti da confortare, cuori spezzati da curare e successi da festeggiare.
E quella sera ci eravamo ritrovate tutte e tre in spiaggia, intorno ad un fuoco, proprio per ricordare tutto questo.
Era una sera speciale, perché l’indomani avremmo dovuto affrontare una prova particolare: gli esami per la maturità liceale.
L’ idea, ovviamente, era stata di Sara: lei, infatti, pensava che ogni avvenimento della vita dovesse essere vissuto come il più importante e dovesse poi essere ricordato per sempre nei minimi particolari; era la classica persona che ricordava alla perfezione il primo giorno di scuola, il primo brutto voto, la prima cotta, il primo bacio…
Insomma, tutto! Anche perché lei scriveva tutto ciò che le capitava: annotava ogni avvenimento che riteneva importante su un diario da quando aveva otto anni.
Lisa, invece, era all’opposto. Lei non guardava mai indietro,non pensava mai al passato; e neanche al futuro, comunque.
Diceva spesso che il modo migliore di vivere era godersi il presente, senza rimpianti inutili e progetti troppo grandi e difficilmente realizzabili. Tuttavia, quando Sara ci propose di trascorrere in maniera un po’ particolare la sera prima degli esami , Lisa fu la prima ad accettare e anch’io non ebbi nulla in contrario: a pensarci bene, in quell’amicizia io ero l’elemento che equilibrava gli eccessi delle altre due, e non era per niente facile; ma i nostri rapporti avevano basi solidissime chiamate lealtà, comprensione e affetto, e questo consentiva a tutte e tre di pensare che, se in futuro ci fossimo perse dl vista, ciascuna avrebbe comunque sempre potuto contare sulle altre.
Quella sera, intorno a quel fuoco, parlammo di questo e di tante altre cose: soprattutto parlammo del futuro, e anche Lisa confessò di aver fatto qualche progetto.
Forse questo dipendeva dal fatto che da poco si era fidanzata con un ragazzo, Mario, che era riuscito a farle ritrovare la calma e la serenità che aveva perso a causa di una delicata questione familiare che, sebbene lei lo abbia sempre negato, le aveva creato non pochi problemi.
E fu una gioia, quella sera, sentirla parlare dell’università, della laurea e poi della famiglia: si capiva che adesso aveva la forza necessaria per affrontare le difficoltà che avrebbe potuto incontrare lungo il cammino, perché ora credeva nel futuro, e questo le faceva vivere meglio anche il presente.
Fu proprio parlando di Mario che Sara pronunciò quella frase che ci colpì molto, perché Sara aveva sempre avuto delle remore su Mario, e non aveva spesso parole gentili per 1ui, anzi qualche volta lo aveva proprio offeso, perché se c’era una cosa che Sara sapeva fare quando era nervosa era proprio pronunciare delle battute così pungenti che avrebbero potuto offendere anche un santo. Inizialmente il suo comportamento ci aveva molto stupite, ma,con il passare del tempo, sia io che Lisa capimmo che il comportamento di Sara era involontario e dipendeva solo dalla rabbia che teneva dentro di non riuscire ad essere felice come lo era Lisa, e cercammo di starle più vicine, non però di compatirla, perché Sara odiava i gesti di compassione; del resto, lei stessa soffriva per suo comportamento, quando comprendeva quello che faceva. Era contenta per Lisa, e lo dimostrava, ma era anche molto triste per se stessa.
Ecco, forse, l’unica vera differenza fra quelle due: Lisa aveva avuto tante esperienze difficili, ma era riuscita a riacquistare la stima e la fiducia in se stessa. Sara, invece, doveva ancora imparare ad amarsi, e proprio per questo, avendo paura di restare sola con se stessa, si lanciava in amori impossibili e sciocche avventure, perché sperava che qualcuno le desse ciò che, in realtà, lei aveva già dentro di sé. E le delusioni che sistematicamente aveva le procuravano una grande paura di restare sola e di non poter essere utile a nessuno: questo era il vero problema di Sara, e quella sera, per la prima volta, riuscì a parlarcene liberamente, mettendo da parte il suo desiderio di essere il centro di tutto e cercando di essere semplicemente se stessa,forse per capire se questo l’avrebbe in qualche modo aiutata a superare la crisi.
E noi ascoltammo finalmente la tristezza silenziosa dei suoi sguardi che si trasformava in parole.
E dopo Sara anche io e Lisa raccontammo di noi, confessammo tutte le nostre paure, sicure del fatto che nessuna avrebbe giudicato,ma soltanto ascoltato e capito. E, man mano che si parlava, ci si rendeva conto che   ogni problema si ridimensionava, diventava più piccolo, e sorgeva in tutte la speranza che si sarebbe trovata una soluzione. Dopo Sara, Lisa ci parlò del dolore che si prova a perdere la stima e il rispetto per una delle persone più importante nella vita di un uomo ed io confessai di non sapere cosa fare della mia esistenza, di non riuscire a darle un senso:sapevo che c’era di più, che dovevo andare oltre, ma ancora non capivo come e perché.
Alla fine di quella serata, nessuna delle tre pensava più agli esami, che ormai non rappresentavano più una “fine”, ma piuttosto un “inizio”, ma ognuna guardava le altre sicura e fiduciosa:credo che non ci siamo mai più sentite così unite come in quel momento.
Sono ormai passati dieci anni dagli esami della maturità.
Oggi mi è capitata fra le mani una fotografia che ci scattarono proprio in occasione della festa del diploma, e guardandola ho ripensato all’atmosfera di quei tempi, di quella notte e mi sono chiesta se Sara e Lisa sono riuscite ad ottenere ciò che desideravano allora; ma mentre avevo la foto in mano ho visto Lucia,una piccola ospite del centro di accoglienza che gestisco assieme alle mie consorelle, corrermi incontro e, giunta di fronte a me,porgermi un dolce, sorridente, dicendo: “Suor Mariella, questo l’ho fatto per te, per ringraziarti per quello che fai per me e la mia famiglia”. Ricambiando il suo splendido sorriso, ho preso il dolce ringraziandola, e poi ha guardato di nuovo la fotografia. Io, Lisa,Sara: eravamo molto diverse ma c’era qualcosa che accomunava tutte e tre: l’ansia di realizzare qualcosa di buono, e sebbene seguendo strade opposte, come lo sono quelle di una suora, un avvocato ed una giornalista, io sono convinta che ognuna stia mantenendo questa promessa; e benché io non le veda più da molto tempo, mi basta chiudere per un attimo gli occhi e ascoltare il mio cuore per ritrovarle accanto a me, a sostenermi ed a confortarmi, come in quella splendida notte.
Se non è questa l’amicizia… (Bovalino, 12 luglio 1977)

7) Storia di un sorriso
Questa storia inizia con un sorriso. E’ così che ho conosciuto Irene due anni fa: con un sorriso. Quando lei sorride lo fa con il cuore e il suo sguardo si accende di una strana luce. Se è vero che gli occhi d’ogni persona ci parlano delle cose che essa deve ancora vedere e non di ciò che ha già visto, io vorrei poter vedere il mondo con i suoi occhi, quegli occhi che brillano e sembrano parlare.
Irene riesce a sorridere anche quando pronuncia parole come `cancro” o “dolore”… Riesce a sorridere ovunque,anche in un letto d’ospedale o sul lettino di una sala operatoria… E riesce a sorridere a chiunque, anche a chi non ha avuto rispetto della sua sofferenza.
La sua storia Irene me la racconta una sera d’estate, al tramonto, appoggiata alla ringhiera di un balcone, mentre cura i suoi fiori, che riempiono l’aria con i loro intensi profumi. E’ una storia fatta d’ospedali. di medici e d’interventi chirurgici… Un lungo calvario iniziato con le parole “tumore alla tiroide”, proseguito con due delicatissimi interventi che ha subito nello spazio di pochi anni, e che non potrà mai concludersi perché dovranno periodicamente sottoporla a dei cicli di radioterapia: bombarderanno il suo corpo con dosi massicce di iodio per eliminare ogni possibile residuo del carcinoma che aveva aggredito la sua tiroide..
Mentre Irene mi parla di tutto questo io la osservo e mi stupisco della sua serenità, della sua calma. Certo, si vede chiaramente che, ha sofferto molto e che tuttora soffre: ma i suoi occhi e le sue parole mi fanno capire che lei ha vinto e continua a vincere il suo dolore, forse perché lo ha accennato fiduciosa, credendo fermamente che: “Ci deve essere un motivo se tutto questo è accaduto, anche se io ancora non riesco a capire”. E aggiunge che nessuno può comprenderla appieno, se non chi ha affrontato il suo stesso calvario.
Le chiedo se, in tutto questo tempo, non si è mai sentita sola… Mi guarda con aria sorpresa: “Sola? No, mai: c’era Dio accanto a me”. E prosegue: “Il giorno in cui mi sono sottoposta al primo intervento, aspettando gli infermieri che mi avrebbero condotto in sala operatoria, mi sono presa un attimo solo per me. Seduta di fronte ad un crocifisso, nell’atrio dell’ospedale, non ho potuto fare altro che affidare la mia vita a Dio: solo Lui poteva sapere cosa sarebbe stato meglio per me… Da allora, ogni giorno ripeto quella stessa preghiera”.
“Ma non hai mai pensato che avresti potuto… Si, insomma, che…” Irene nota il mio imbarazzo e completa lei stessa la mia domanda: “. . Che sarei potuta morire? Si, certo che ci ho pensato. Anzi, al principio l’idea della morte mi ha assalito: se prima essa era solo un pensiero, un qualcosa di lontano ed astratto, con l’avvento della malattia la morte ha assunto forme concrete… La potevo toccare, mentre toccavo le medicine; la potevo vedere dipinta sul viso e negli occhi ansiosi e preoccupati di amici e parenti; la potevo persino sentire: il suo odore era mischiato a quello inconfondibile di medicinali e disinfettante che mi procura un forte senso di nausea ogni volta che entro in un ospedale… E ho avuto paura, tantissima paura.
Ma se mi fossi arresa alla paura non avrei concluso niente, Il cancro non è un ostacolo che puoi aggirare: o lo vinci.., o ti vince. E la vita è un bene prezioso, da difendere con ogni mezzo; la vita è un dono…”
Le chiedo ancora: “In ospedale, cosa ti mancava di più?’ Irene guarda lontano, verso il mare, oltre i tetti delle case,tinti dai colori del tramonto, oltre il piccolo campanile della chiesa del paese e poi sospira dicendo: “Tutto questo… il mio paese, la mia gente, i problemi d’ogni giorno e gli amici… A volte mi assaliva il pensiero che avrei potuto anche non rivederli mai più; altre volte, invece, mi chiedevo cosa avrei trovato al mio ritorno.
Perchè il cancro non fa paura solo a chi n’è vittima, ma anche a chi gli sta accanto. I miei amici… Si, c’è voluto del tempo, ma poi è andato tutto per il meglio, e non è trascorso giorno, mentre ero in ospedale, in cui non abbia ricevuto visite e telefonate.”
Guardo Irene con ammirazione e affermo che non so cosa darei per avere il suo coraggio. Lei stringe le spalle,guardando sempre verso l’orizzonte e, pensosa. ribatte: `Non credo che si tratti di coraggio, ma piuttosto penso che Dio non mi caricherà mai sulle spalle una croce il cui peso io non possa sopportare.
E vero che le esperienze di dolore sono quelle che ti segnano più profondamente, ma esse sono, al contempo,quelle da cui più impari.
E una delle tante cose che ho capito in questi anni è che tutto si può sopportare, anche il dolore più acuto, se si ha la fede certa di avere il Signore accanto.
Dopo il secondo intervento ho trascorso ore terribili, in preda a dolori più atroci. Ho cercato di sopportare le fitte lancinanti alla gola, ma il dolore ha vinto, per un attimo: ho stretto con tutte le forze che mi erano rimaste la mano di mio padre e ho cominciato a piangere ed urlare: “Dio, dove sei?” Ma in quello stesso istante, da chissà dove, mi sono giunte le parole di un salmo che qualcuno stava recitando: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla…” Ho continuato a piangere, ma non più per il dolore, bensì per il sollievo di aver avuto ancora una volta la prova della vicinanza di Dio, e Gli ho chiesto perdono per quel momento di smarrimento.”
Mentre Irene racconta, le sue parole e il suo sguardo mi rivelano un’instancabile voglia di vivere e di sperare nei   giorni che verranno, ed è come se fosse tornata bambina: i suoi occhi s’incantano stupiti anche di fronte ad un   semplice fiore, riuscendo a cogliere quanto di miracoloso c’è nel suo sbocciare.
Irene ha sempre amato la vita, e in questi anni ha dato un senso concreto a quest’amore affrontando in suo nome   la malattia e la sofferenza, preoccupata solo di non sprecare il “dono” ricevuto.
Forse è proprio questo il motivo per cui tutto ciò le è successo; o forse il motivo è che Irene e la sua storia dovevano dimostrare a me, e a tanti altri come me, vittime di questa società depressa e deprimente, che quando si ama la vita si può affrontare e persino vincere un tumore con un semplice sorriso… purché esso sia, come quello d’Irene, un segno di speranza.

8) Tempi di guerra in un tempo di pace
Quando lo scorso 7 luglio le televisioni di tutto il mondo hanno mandato le immagini di quello che stava accadendo a Londra, ho avuto l’impressione di essere tornata indietro, a circa un anno e mezzo fa…
Mi trovavo in Spagna per motivi di studio quando il Paese venne sconvolto dall’attentato dinamitardo alla linea metropolitana di Madrid, l’11 marzo del 2004, ed è difficile descrivere le emozioni e le impressioni di quei giorni. Una cappa di paura e sgomento era calata sul Paese…
Le televisioni continuavo a mandare le immagini della stazione di Atocha e degli altri punti della città devastati dalle esplosioni, il numero dei morti e dei feriti cresceva di ora in ora.…e presto cominciarono a serpeggiare nomi, sigle e parole tristemente famosi, che rimandavano alla memoria eventi drammatici… Al Qaeda… Osama Bin Laden…Terrorismo islamico…
Il nemico senza volto contro cui tutte le potenze del mondo occidentale hanno ingaggiato una lotta senza frontiera era “sbarcato” in Europa e aveva segnato un punto a suo favore…E tutto il resto è storia…compresa la sconfitta elettorale del primo Ministro Aznar e della sua linea politica troppo compiacente nei confronti dell’America.
Vivere in un Paese sconvolto da un attacco terroristico di quella portata mi ha in qualche modo “costretto” ad interessarmi a questioni e problemi che prima mi sembravano lontani anni-luce, sebbene dopo l’11 settembre 2001 problemi come quello della sicurezza mondiale e il rapporto tra culture diverse sono ormai all’ordine del giorno, ed è impossibile non interessarsene. Ma tutto si risolve col seguire un telegiornale e leggere un quotidiano, e si resta nell’astrattezza.
Ma in quei giorni fu tutto diverso. Camminando per le strade della città la paura e la tensione si potevano toccare per mano…penso di aver provato le stesse sensazioni di ha vissuto in Italia gli Anni di Piombo… la vita quotidiana si svolgeva normalmente, con gli impegni di sempre, con lo studio, le passeggiate con gli amici e il resto…ma anche con la sgradevole sensazione di non essere mai “al sicuro”…un pericolo impalpabile ma paradossalmente molto concreto…l’ansia che da un momento all’altro, chissà..su un tram o in metropolitana…la certezza di vivere in tempi di guerra, ma in un tempo apparentemente di pace…ed una domanda su tutte: perché?!…
E dopo Madrid, è stata la volta di Londra…Continuano gli attacchi contro i sostenitori della politica americana ed i bollettini dei capi di Al Qaeda promettono di non dimenticarsi di nessuno dei nemici dell’Islam…E, dall’altra parte, i difensori della “democrazia e della libertà” promettono che non si fermeranno fino a quando anche l’ultimo nemico dei “valori democratici” non sarà vinto…e si fa presto a mettere tutti nello stesso calderone, e il nemico non è più un folle e i suoi seguaci, ma tutto un popolo e tutta una cultura…come se la Storia non avesse dimostrato più volte che uno scontro tra culture, tra ideologie, anzi meglio…uno scontro tra “civiltà”, come oggi si dice, non porta alla vittoria di una parte ma solo alla distruzione del genere umano tutto…
Comunque, è chiaro a tutti che nessuno sta combattendo per far trionfare un valore morale o un credo religioso, ma che anche dietro questa guerra, come dietro ad ogni altra guerra c’è solo un interesse economico…
Oggi il problema non è informare l’opinione pubblica: il vero problema è risvegliare la nostra coscienza civile, perché pur sapendo taciamo e subiamo, e perdiamo la possibilità di porre fine a questa ed ad ogni guerra, cosa che potremmo fare cambiando il nostro atteggiamento e ritrovando una coscienza critica che ci faccia capire chi è “il vero nemico” e ci guidi in un’azione consapevole volta a riacquistare la volontà di cambiare le cose e la speranza per dare un futuro che sia veramente tale alle nuove generazioni.Dice Sant’Agostino: “La Speranza nasce da due cose: lo Sdegno e il Coraggio: lo Sdegno, per le cose che si vedono; il Coraggio, per cambiarle”

 

 

 

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